lunedì 26 ottobre 2009

Marco d'Aviano 2°parte

Marco d'Aviano, santo ed eroe dimenticato
Il suo Barbarossa è nelle sale, e Renzo Martinelli è già da tempo impegnato alla preparazione del suo prossimo film: Marco d'Aviano . Dovrebbe essere un film ancor più spettacolare del Barbarossa; infatti, se in questo ha dovuto ricostruire la Milano del XII secolo, nel Marco d'Aviano dovrà ricostruire la Vienna di fine '600. A rendere colossale il film, poi, ci dovrebbe essere la scena principale, la quale dovrebbe riguardare l'assedio di Vienna, iniziato il 12 luglio 1683 con l'arrivo delle prime avanguardie turche nei sobborghi di Vienna. La consistenza dell'esercito turco, al completo, è stata variamente valutata in 200.000 - 300.000 uomini, ma è più verosimile fossero all'incirca 140.000. Ammettendo per buono questo dato, sarebbero comunque stati il doppio rispetto alla coalizione formata da forze austriache, sveve, bavaresi, sassone, francone assommanti a 70.000 uomini, di cui 30.000, ben addestrati, provenivano dalla sola Polonia, comandati da re Giovanni Sobieski. I preparativi per la battaglia furono intrapresi la sera dell'11 settembre; l'indomani, domenica 12 settembre 1683, ebbe luogo quella che viene ricordata come la battaglia di Vienna ; una battaglia dal cui esito sarebbe dipeso il futuro corso della storia europea. In caso di vittoria ottomana, infatti, l'Europa sarebbe stata islamizzata di forza. E secondo il terribile progetto del gran visir Kara Mustafà, progetto che in Europa si credeva o si pensava di conoscere, questi aveva in mente di "espugnare Vienna e Praga, frantumare le forze di Luigi XIV sul Reno, e marciare su Roma per fare di San Pietro le scuderie del sultano".
Con un impiego di forze di quella proporzione, Vienna - assediata e parzialmente svuotata da suoi abitanti, datisi a precipitosa fuga nell'imminenza del pericolo - secondo quel progetto turco, sarebbe dovuta capitolare in pochi giorni. Invece resistette ad oltranza, dando così modo alla coalizione amica di organizzare gli aiuti. I viennesi sentivano che la posta in gioco era troppo grande: Vienna era considerata l'ultimo baluardo contro l'avanzata irrefrenabile dell'islam, che era culminata nel 1453 con la conquista di Costantinopoli (ora Istanbul) da parte dei turchi ottomani; impresa che aveva posto fine all'Impero Romano d'Oriente, o Impero Bizantino.
Il regista dovrà anche saper rappresentare il terrore patito dal popolo viennese durante i tremendi due mesi dell'assedio: "i bastioni non erano fortificati e muniti, i cannoni scarseggiavano, mentre dall'alto delle mura gli assediati potevano vedere le tende mussulmane che si stendevano a perdita d'occhio nei dintorni". Il terrore dei viennesi veniva anche alimentato dai racconti di quanto avvenuto 112 anni prima, nel 1571, nell'isola di Cipro, presa ai veneziani dall'assalto dei turchi. Era successo un fatto terrificante, di bestialità e crudeltà inaudita, oggi minimizzato e quasi trascurato dalla storia; una storia di cui rimando la lettura attraverso Wikipedia, riguardante l'assedio di Famagosta e l'orribile assassinio del suo Capitano Generale Marcantonio Bragadin , nonchè Governatore di Cipro (il fatto è descritto molto bene nel libro di Catherwood Christopher, "La follia di Churchill, l'invenzione dell'Iraq". Questi, con dovizia di particolari, ha descritto le atrocità compiute dai turchi ottomani che occuparono l'isola, e l'orribile fine cui fu sottoposta la numerosa scorta di Bragadin, andata là con lui in pompa magna, come fossero andati ad una festa, per firmare la resa e consegnare le chiavi della città. Erano completamente disarmati, in segno di pace). Tale fatto dovrebbe essere ricordato nel futuro film di Martinelli su Marco d'Aviano, per far capire agli spettatori la ragione di così grande paura nei confronti dei turchi ottomani. Famagosta, dopo 22 anni di ininterrotto assedio - forse il più lungo della storia - dovette capitolare, per stenti e fame; nè i residenti potettero contare su aiuti di esterni, o della madre patria Venezia, perchè impegnati nei preparativi per quella che sarebbe poi stata la battaglia che tanto ha influito sul successivo corso della storia: la battaglia di Lepanto , avvenuta il 7 ottobre 1571.
A padre Marco d'Aviano andrebbe riconosciuto il merito maggiore per la vittoria delle forze cristiane su quelle islamiche nello scontro decisivo di Vienna; lo si può intuire anche leggendo la sua biografia, unita agli atti per il processo di canonizzazione ( biografia di padre Marco d'Aviano ) . Eppure, nelle enciclopedie, nei libri di storia delle scuole superiori, almeno quelli più retrodatati, Marco d'Aviano non viene nemmeno citato. Completamente trascurato. Ne è riprova il fatto che, chiedendo in giro chi sia Marco d'Aviano, pochi o nessuno saprà rispondere; dovrebbe essere almeno conosciuto in Polonia e in Austria, sua patria adottiva, e soprattutto a Vienna, dove è sepolto, vicino ai reali d'Austria. Una rivalutazione, una riscoperta del beato, da quelle parti, pare sia però avvenuta solo di recente; prima, sembra sia stato dimenticato anche là. Infatti, quando nel 1883 "si celebrò solennemente il secondo centenario della liberazione di Vienna, nei discorsi e nelle commemorazioni di circostanza non ci si ricordò nemmeno di un certo padre Marco d'Aviano, il quale era stato, vedi combinazione! - una delle cause determinanti della grande vittoria che aveva salvato Vienna, l'impero, l'Europa. Dato il tempo e il luogo, non si può certo dire che si trattasse di un silenzio casuale". E sarà forse stato anche per la probabile venerazione di cui dovrebbe godere in Polonia, che papa Wojtyla, il papa polacco, prima di morire, ha voluto beatificarlo, domenica 27 aprile 2003, chiudendo il lungo processo di beatificazione e canonizzazione . Durato 300 anni, era iniziato nel 1703, dopo appena 4 anni dalla morte di padre Marco d'Aviano (beatificazione di padre Marco d'Aviano).

Marco d'Aviano, una vita da santo eroico, tutta spesa per la conservazione dell'indipendenza politica e religiosa dell'Europa dall'invadenza islamica turca ottomana. Santa, la prima parte della vita, anche per i miracoli documentati, che gli sono stati attribuiti; defatigante la seconda, per i numerosi viaggi - molto disagevoli per quell'epoca - compiuti per raggiungere le corti d'Europa, ove era molto richiesta la presenza di un frate già in odore di santità; santa ed eroica la terza ed ultima parte della vita, per la sua onnipresenza sui campi di battaglia, da Vienna, Buda, Belgrado, per sostenere e incoraggiare i soldati, spronandoli a combattere eroicamente per la salvezza del cristianesimo, e, con esso, dell'Europa.
Pubblicato da Marshall

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domenica 18 ottobre 2009

dal blog di Marcello di Mammi http://narrare-dimammi.blogspot.com/2009/10/primo-ottobre-1561-il-sacro-militare.html

Primo ottobre 1561


IL Sacro Militare Ordine di S.Stefano

viene istituito da Cosimo I dei Medici Granduca di Toscana.

Lo scopo principale era costituire una flotta navale e da sbarco, per la difesa delle coste e dei territori toscani ed in generale italici, dai pirati barbareschi, turchi, mori e quindi dall’Islam.
“..ad Dei laudem et gloriam ac fidei Catholicae defensionem marisque Mediterranei ab infedelibus custodiam et tuitionem…” .
Il papa Pio IV con la solenne Bolla "His, quae Pro Religionis Propagatione" del 1 febbraio 1562 ne decretò la costituzione "perpetuo erigimus ac instituimus" e ne approvò lo statuto "statuimus ac ordinamus".
L’Ordine fu successivamente consacrato, il 15 marzo 1562 nella Primaziale di Pisa, dal nunzio apostolico monsignor Cornaro.Inizialmente la sede doveva essere a Cosmopoli, l'attuale Portoferraio all'Isola d'Elba. Per questioni logistiche gli venne preferita Pisa ed il porto di Livorno per la flotta.

L’ordine fu intitolato a S. Stefano papa e martire (254-257 d.c.) e fu posto sotto la regola benedettina, la scelta di questo santo è riconducibile al fatto che, il due agosto, ricorrenza della sua festa, Cosimo I ottenne due importanti vittorie a Montemurlo nel 1537 (contro gli Strozzi) e a Scannagallo nel 1554 contro i senesi.
Le principali cariche dell’ordine erano e il Gran Maestro, che era il granduca, i dodici cavalieri del consiglio supremo, il commendatore maggiore, alter ego del duca, il gran contestabile che comandava le truppe da sbarco e gli assalti, l’ammiraglio generale delle galere che era il comandante della flotta e la conduceva in battaglia, il grande ospitaliere e il priore conventuale.L’ordine comprendeva tre specie di cavalieri: i militi, gli ecclesiastici e serventi.L’accesso all’ordine era altamente selettivo ed elitario, occorreva inviare una “supplica” al Gran Maestro e superare un processo di nobiltà, con tanto di notaio e cavalieri in qualità di testimoni. Il supplicante, ossia l’aspirante cavaliere, doveva documentare la nascita da genitori uniti da giuste nozze ed in luoghi riconosciuti come città nobili, avere più di 17 anni, l’appartenenza di tutti e quattro gli avi al ceto nobile, avere un patrimonio consistente, non essere stato condannato a pene detentive ed avere sempre avuto, avi compresi, una condotta esemplare. Costituivano titoli di merito le cariche onorifiche e pubbliche, sue proprie e della famiglia.
Una volta superato il processo si procedeva alla vestizione del neocavaliere, il dignitario incaricato dall’ordine si recava nella chiesa scelta per la cerimonia, gli “percuoteva l’un e l’altra spalla” e gli consegnava l’insegna, un altro cavaliere gli offriva la spada ed altri due gli sproni dorati a simboleggiare che l’abito militare doveva essere suo per sempre, fino alle esequie, dopodiché veniva tagliato da due cavalieri. I cavalieri dovevano professare tre voti: la carità, la fedeltà coniugale e l’ubbidienza ai superiori. Dovevano sottoporsi ad una rigida disciplina ed ad un duro addestramento, in quanto si dovevano comportare da valorosi a costo di sacrificare la loro stessa vita.


Le campagne militari videro l'Ordine schierato a fianco della Spagna contro gli ottomani, con la difesa di Malta (1565).
Partecipò con la Lega Santa alla battaglia di Lepanto (1571) con dodici galee sotto le insegne papali.
Contribuì alla presa di Bona in Algeria e, dopo il riconoscimento delle capacità militaresche, l'Ordine fu impiegato contro turchi e barbareschi lungo le coste del Mediterraneo.
Risalgono a questo periodo una serie di incursioni sulle isole del mar Egeo, tenute dai turchi, le campagne in Dalmazia e Negroponte e la guerra di Corfù.

In seguito Ferdinando III di Lorena riorganizzò l’Ordine dando la prevalenza alla diplomazia ed agli accordi commerciali piuttosto che alle azioni militari, queste vennero limitate alla difesa della costa. Risale, comunque, a questo periodo un aiuto ai veneziani contro gli ottomani.
Nel 1809 l’Ordine fu soppresso dal governo napoleonico e ripristinato nel 1817.
Fu nuovamente soppresso nel 1859 da Bettino Ricasoli, presidente del consiglio dei ministri del regno d’Italia.
Tuttavia questa soppressione non fu accettata dalla dinastia dei Lorena in quanto, trattandosi di un ordine religioso consacrato dal papato, solo il papa poteva scioglierlo.

Oggi esiste ancora e l’attuale Gran Maestro è S.A.I. Sigismondo d’Asburgo Lorena, arciduca d’Austria, granduca titolare di Toscana dal 1993.

Piazza dei Cavalieri a Pisa


(Continua)

mercoledì 14 ottobre 2009

Esaltazione di Cosimo de Medici

Firenze, caduta la sua gloriosa repubblica (1530), ebbe campo di sospirare la perduta libertà, sotto il dispotico governo del duca Alessandro, che cadde infine vittima di una congiura.
Ricostruttore delle fortune medicee fu il nuovo duca, Cosimo (1537-1574), giovine principe, al quale non mancavano energia, senno politico ed equilibrio sufficiente per non abusare del potere assoluto. Cosimo si strinse a Carlo V, e, in concorso con le truppe imperiali, abbattè la libertà di Siena e assorbì gran parte del suo territorio.
L'unità regionale toscana, antica aspirazione del Comune fiorentino, fu così quasi completamente realizzata, restandone esclusi solo piccoli lembi della regione. Cosimo diede allo Stato un solido ordinamento assolutistico: riordinò l'amministrazione e le finanze; rafforzò l'organizzazione militare, promosse con savie iniziative lo sviluppo economico del paese; creò un esercito regionale, formato da elementi locali. La sicurezza della navigazione fu affidata, oltre che alla flotta ducale, ai Cavalieri di santo Stefano, un Ordine religioso-cavalleresco di nuova fondazione, che ebbe sede a Pisa nel sontuoso palazzo del Vasari, che ha tuttora il nome dei Cavalieri. Nelle lotte contro i corsari barbareschi, l'Ordine si acquistò grandi benemerenze con una vigilanza assidua sui mari e con azioni eroiche di guerra.La bonifica di paludi, la costruzione di canali e di altre opere di pubblica utilità, l'impulso dato alle industrie, specie della seta, di Firenze, di Pisa, di Siena, e ai loro commerci, i primi progetti per la costruzione del porto artificiale di Livorno, danno la misura della vitalità impressa da Cosimo all'economia toscana. Il governo complessivamente savio e benefico di lui potè mettere in ombra il suo dispotismo e non pochi suoi atti di tirannia.
L'esaltazione di Cosimo alla dignità granducale per decreto di papa Pio V (1569) rappresentò il riconoscimento del fervore, con cui egli aveva promosso nei suoi Stati il trionfo degli ideali della Riforma cattolica. Il nuovo titolo, riconosciuto poi dall'imperatore con un elevato compenso pecuniario, conferiva alla casa Medici una posizione di priorità rispetto agli altri principi italiani. Tra i successori di Cosimo, Ferdinando I (1587-1609) ebbe il merito di avere recato a termine la costruzione del porto di Livorno. Per dare il massimo incremento al porto e alla città, sorta si può dire dal nulla, il granduca concesse ampie franchigie doganali, invitò con una patente del 1593, che fu detta la "Livornina", ad abitarvi emigrati di altri paesi, senza distinzione di nazionalità, di razza e di confessione religiosa: affluirono in gran numero, contribuendo poi alle fortune del nuovo centro protestanti ed ebrei. Sotto Ferdinando, la Toscana poggiò dal lato della Francia. Il matrimonio di Maria, nipote del granduca, con Enrico IV di Francia, in un momento in cui questa nazione stava riprendendo posizione nel campo della politica internazionale, aveva il valore di un atto diplomatico, diretto a liberare la Toscana dalla tutela spagnuola.
Sotto il fiacco governo degli ultimi principi della casa Medici, che si estinse nel 1737, la Toscana era priva di ogni importanza politica, e si accentuava la decadenza economica.

Questo brano è stato trascritto traendolo integralmente da "Civiltà e Società", corso di Storia, de "La Scuola" Editrice, per la terza classe degli istituti tecnici - IV edizione 1964 - capitolo XIV.
La mia attenzione è stata attratta, e si è appuntata su questo brano, perchè contiene l'esaltazione per i Cavalieri di santo Stefano; e l'esaltazione per Cosimo de Medici, artefice della costruzione, dal nulla, della città di Livorno che, per la ponderosa presenza di canali artificiali, viene anche definita la Venezia Nuova . Cliccandovi sopra, potrete anche accedere al link della Fortezza Vecchia, detta anche "Mastio della contessa Matilde", in quanto la prima costruzione dei suoi bastioni risale forse al secolo XI (dal libro Civiltà e Società, di cui sopra).
Per un approfondimento degli argomenti qui citati, potrete trovarli accedendo al blog di Sarcastycon3, e poi navigando, ove sono descritti con dovizia di particolari inediti.

venerdì 2 ottobre 2009

Marco d'Aviano

Marco d'Aviano: chi era costui? Confesso la mia ignoranza, fino a ieri. Conoscevo quel nome, perchè a Milano, in zona Loreto-Padova, c'è una via a lui intitolata. Ma tutto lì. C'è voluto un imput da parte di Renzo Martinelli, per far si che iniziassi ad interessarmene. Renzo Martinelli è il regista brianzolo di Cesano Maderno, estimatore di Umberto Bossi. Nè dalla Rai, nè da altre reti televisive ne avevo mai sentito parlare prima, eppure, Marco D'Aviano è stato un personaggio di grande importanza per gli assetti dell'Europa moderna; al quale deve molto. Non se ne comprende, pertanto, la trascuratezza e la dimenticanza cui è stato fatto oggetto. Ed è sempre l'ardimentoso regista a ricordarci che Marco D'Aviano è stato, per l'Europa, un personaggio di gran lunga più importante, rispetto a quello che Giovanna d'Arco è stata, e rappresenta per la Francia. Proclamata santa nel 1920 da Papa Benedetto XV, per Marco D'Aviano, al quale, tra l'altro, sono stati attribuiti miracoli ancor lui vivente, c'è voluto invece l'arrivo alla soglia pontificia di un papa straniero, polacco, Papa Giovanni Paolo II, per far si che, a 304 anni dalla sua morte, Marco D'Aviano fosse stato proclamato beato, nel 2003.

L'Europa, oggi, non sarebbe stata la stessa, senza la comparsa sulla scena europea del XVII secolo, di Marco D'Aviano. Le donne europee sarebbero costrette ad abbigliarsi secondo la legge coranica; il Vaticano sarebbe la grande moschea islamica, di importanza superiore a quella che divenne la Basilica di Santa Sofia a Istanbul , perchè Roma sarebbe diventata il centro mondiale dell'islamismo; e tutte le nostre chiese sarebbero ora ridotte a rango di madrase e moschee.

Concetti, questi, ricordati da Renzo Martinelli, nel corso del programma televisivo su Rai 2, "Quello che", di sabato scorso 26 settembre. Era lì per parlare anche del suo film, Barbarossa, di prossima uscita nelle sale, prevista per il 9 ottobre.

E' stato nel corso di tale programma, che ha anche annunciato la produzione del suo film su Marco D'Aviano, la cui lavorazione inizierà l'anno prossimo, il 2010. L'opera presenterà grandi analogie col film Barbarossa. In quest'ultimo è la minuta popolazione milanese che, coalizzatasi con quella di altre città lombarde, mise in piedi quell'esercito fatto per lo più di contadini e braccianti, tutti volontari, male armati e male equipaggiati, che però, carichi di ardimento e coraggio, sconfissero l'esercito imperiale di Federico Barbarossa. Nel caso della vicenda umana di Marco D'Aviano, emerge la figura di un indomito presbitero, in abito da frate, al secolo Carlo Domenico Cristofori, nato ad Aviano nel 1631 e morto a Vienna nel 1699, che, da solo, accorrendo alle Corti d'Europa, era riuscito a vincere la noncuranza dei potenti nei confronti di Vienna, cinta d'assedio da diversi mesi dall'esercito turco ottomano, accampato fuori le sue mura, aspettando che si arrendesse per fame. Marco D'Aviano riuscì nell'intento di scuotere dal torpore principi e re europei, intenzionati, com'erano, a non fare nessun passo in aiuto di Vienna. Marco D'Aviano fece così coalizzare quegli eserciti, facendo liberare l'Europa dal pericolo di una lunga e tormentosa dominazione ottomana. L'Europa fu salva, e con essa il cristianesimo.

L'odio che gli islamici nutrono nei confronti di europei e occidentali, deriva tutto da quella loro umiliante sconfitta. Nessun'altra ragione, nemmeno quella di ordine religioso: è la tesi di Renzo Martinelli, su tale questione.

Con quella sconfitta, i turchi ottomani, che contavano nel successo su Vienna, per riprendere l'espansione dell'impero ottomano, interrotta da oltre un secolo, dovettero abbandonare ogni ambizione velleitaria. Dopo quella sconfitta, la Turchia Ottomana si trovò impelagata in una crescente e sempre più ingovernabile crisi militare economica e politica. Era così iniziato un periodo, durato oltre due secoli, durante il quale fu costretta ad occuparsi di tutt'altro che non a mire espansionistiche. In seguito, con l'avvento al potere di Mustafa Kemal Ataturk , il padre della Turchia moderna, comparso sulle scene politico-militari all'inizio del '900, la Turchia cominciò ad aprirsi alla modernità europea. Con l'avvento di Mustafa Kemal era così iniziato il cammino per quel lento cambiamento di mentalità, che sta tuttora cercando di portare la Turchia verso la modernità, e verso una totale integrazione con l'Europa.

E' da credere in questo loro proposito di cambiamento?

E' soprattutto su questa incognita che si scontrano i favorevoli e i contrari all'ingresso della Turchia nella Comunità Europea.

domenica 16 agosto 2009

Il terrorismo slavo in Venezia Giulia

IL TERRORISMO SLAVO IN VENEZIA GIULIA
Come attesta, fra gli altri, Almerigo Apollonio nel studio “La Venezia Giulia dagli Asburgo a Mussolini”, se l’unione con l’Italia fu accolta con grande favore dagli Italiani, maggioranza assoluta nella regione, presso la minoranza slava non si ebbe inizialmente né adesione, né ostilità, ma piuttosto uno stato di attesa, comunque non mosso da animosità contro il nuovo governo. Anzi, l’attività di soccorso delle popolazioni stremate dalla guerra e dalla fama, da parte dell’esercito italiano fu altamente apprezzato anche da Sloveni e Croati.
La situazione cambiò ben presto non è per l’operato italiano, bensì per quello jugoslavo (l’Apollonio su questo punto è chiarissimo). Il governo jugoslavo costituì delle organizzazioni segrete, aventi basi sul proprio suolo, ma ramificate anche inVenezia Giulia, dedite all’agitazione ed alla propaganda contro l’Italia e gli Italiani. La loro attività fece sì che buona parte della popolazione slava, in precedenza non ostile, lo divenisse invece nei confronti del nuovo stato di cui faceva parte. Infatti, sin dall’immediato dopoguerra, il governo jugoslavo sostenne l’azione di terroristi slavi dediti all’assassinio in territorio giulio-veneto.


Una breve valutazione dell’entità del terrorismo slavo in Venezia Giulia può essere dato dal seguente elenco, largamente incompleto, delle loro operazioni:Nel periodo 1920-1922 si hanno le seguenti azioni omicide ad opera dei terroristi slavi:-assassini del maresciallo della Guardia di Finanza, Postiglione, della guardia regia Giuffrida, del finanziere Plutino, del carabiniere Cecchin, della guardia regia Poldu, del tenente Spanò e del sergente Sessa, avvenuti a Trieste-assassinio del finanziere Stanganelli avvenuto a Postumiaassassinio del brigadiere dei Carabinieri Ferrara avvenuto a Pola -assassinio del soldato Palmerindo avvenuto a CarnizzaA partire dal 1924, risoltosi formalmente il contenzioso italo-jugoslavo, lo stato jugoslavo pratica una politica di doppiezza, formalmente ed ufficialmente riconoscendo il confine pattuito, di nascosto appoggiando e finanziando altri gruppi terroristici. I quali sono responsabili delle seguenti azioni:-attacco militare ai posti della Guardia di Finanza di Coterdasnizza e di Molini.-assalto compiuto da una banda di una ventina di armati, provenienti da oltre confine, attaccarono il corpo di guardia del valico confinario di Unez, uccidendone il comandante, il sottobrigadiere Lorenzo Greco.-Nell'aprile del 1926 fu attaccata a scopo di rapina la stazione ferroviaria di Prestrane, con uccisioni del ferroviere Ugo Dal Fiume e la guardia di finanza Domenico Tempesta.-Nel mese di luglio 1926 fu appiccato il fuoco ad un bosco del comune di Trieste-nel novembre 1926 avvenne un attentato dinamitardo alla caserma di San Pietro del Carso, con la morte di Antonio Chersevan, mentre rimasero gravemente feriti Francesco Caucich ed Emilio Crali.-Nella notte del 10 febbraio 1927, nelle vicinanze del castello di Raunach vi fu un'imboscata ad una pattuglia militare, con sparatoria in cui rimasero feriti Andrea Sluga e Francesco Rovina.-Nel maggio 1927 fu tesa, sulla strada tra Postumia e San Pietro del Carso, un'altra imboscata ad una di queste pattuglie, ed in essa rimase ferito il soldanto Cicimbri -il 29 dicembre del 1927 di quell'anno fu incendiato il Ricreatorio di Prosecco.-Nell'aprile del 1928, ancora a Prosecco, fu incendiata la scuola elementare, -nel maggio dello stesso anno fu incendiata quella di Cattinara e fu tentato l'incendio dell'asilo infantile dell'Opera Nazionale Italia Redenta di Tolmino.-Il 3 agosto 1928 ebbe luogo l’assassinio a tradimento della guardia municipale di San Canziano, Giuseppe Cerquenik.-nello stesso mese fu incendiato il ricreatorio della Lega Nazionale di Prosecco, -ai primi di settembre del 1928 fu incendiata la scuola di Storie-il 22 settembre 1928, a Gorizia, furono uccisi lo studente Coghelli ed il soldato Ventin che aveva cercato di fermare l'assassino del Coghelli.-Nel gennaio 1929 si ebbe la devastazione dell'asilo infantile di Fontana del Conte, -nel marzo 1929 ci fu l'assassinio, a Vermo, di Francesco Tuchtan. -Nel giugno 1929, si ebbe l'incendio della scuola di Smogliani, --nel luglio 1929 fu fatta saltare in aria la polveriera di Prosecco -nel novembre 1929 avvenne la rapina all'ufficio postale di Ranziano -nel dicembre 1929 si ebbero i tentati omicidi dell'agente Curet a S. Dorligo della Valle e della guardia Francesco Fonda.-nel gennaio 1930 vi fu l'attentato al Faro della Vittoria a Trieste, -in febbraio fu incendiato l'asilo infantile di Corgnale -sempre a febbraio fu assassinato a Cruscevie il messo comunale Goffredo Blasina.-Il 10 febbraio ci fu l'attentato dinamitardo al Popolo di Trieste, in cui morì lo stenografo Guido Neri, mentre rimasero gravemente feriti i correttori di bozze Dante Apollonio, Giuseppe Missori ed il fattorino Marcelle Bolle.-Nel maggio del 1930 furono assassinati a San Dorligo della Valle i coniugi Marangoni-nei primi giorni del settembre 1920, in uno scontro a fuoco con dei terroristi sloveni che cercavano d'introdursi in regione, fu uccisa la guardia alla frontiera Romano Moise e il suo commilitone, Giuseppe Caminada, fu gravemente ferito.Si noti come questo elenco sia approssimato per difetto, sebbene presenti un bilancio impressionante per numero di azioni terroristiche e loro gravità. Ciò che rende particolarmente gravi le azioni suddette è il fatto che esse non furono opera di gruppo clandestini indipendenti, bensì di organizzazioni terroristiche create, controllate ed organizzate dallo stato jugoslavo stesso. Lo stato jugo-slavo perseguiva una politica di doppiezza, da una parte riconoscendo ufficialmente la frontiera ottenuta dall’Italia, dall’altra costituendo dei nuclei armati terroristici, che avevano le loro sedi in territorio jugo-slavo ed erano organizzate, addestrate, armate, guidate dall’esercito jugo-slavo. L’impiego di simili strumenti non erano nuovo allo stato jugo-slavo, il quale ereditava una tradizione già propria di quello serbo, che si era servito anch’esso di organizzazioni terroristiche (“Mano Nera” e “Mano Bianca”) per combattere la presenza asburgica in Bosnia-Erzegovina.Le associazioni terroristiche jugo-slave, che prendevano il nome di “Tigr” e “Barba”, malgrado avessero il loro impianto strutturale in Jugo-slavia e fossero costituite per lo più da jugo-slavi, pure avevano naturalmente anche ramificazioni in Venezia Giulia, ed ivi svolgevano con l’appoggio dei loro sodali anche un’intensa propaganda anti-italiana, affiancata agli atti terroristici. Il terrorismo jugo-slavo in Venezia Giulia, oltre alla sua intrinseca gravità, consente di meglio comprendere ciò che realmente accadde in quella che i nazionalisti slavi presentano come “persecuzione fascista”.L’incendio dell’hotel Balkan, presentato da alcuni come il massimo atto di violenza fascista contro gli Slavi in Venezia Giulia, ebbe invece come responsabili i terroristi jugo-slavi. Il 13 luglio del 1920, in seguito alle violenze anti-italiane degli Jugo-slavi in Dalmazia, i fascisti organizzarono un comizio a Trieste. Un Italiano, Giovanni Nini, che aveva preso parte alla manifestazione ed aveva gridato frasi che sostenevano l’italianità della Dalmazia, fu accoltellato a morte da ignoti, con ogni verosimiglianza Slavi, date le circostanze. Un gruppo di fascisti si diresse allora verso il Narodni Dom, ma lo trovò circondato da oltre 400 militari Italiani, armati e schierati, e fu costretto ad arrestarsi. Però, dalle finestre del Narodni Dom piovvero addosso ai militari Italiani bombe a mano e partirono fucilate. I militari, vistosi aggrediti, si difesero aprendo il fuoco contro l’edificio. L’incendio scoppiò in seguito all’esplosione di munizioni ed esplosivi ivi contenuti, essendo il Narodni Dom sede di una organizzazione militare clandestina organizzata dallo stato jugoslavo per compiere attentati, violenze ed attività propagandistica in Venezia Giulia. Furono proprio i successivi scoppi delle armi contenute, del tutto illegalmente, nel Narodni Dom ad impedire ai vigili del fuoco ivi accorsi di spegnere l’incendio. Questa è la vera vicenda di ciò che viene presentato dai nazionalisti Sloveni stessi quale l’apice e la massima espressione dell’ “oppressione fascista” degli Slavi residenti in territorio italiano. Non si trattò di una “aggressione fascista” contro un “centro culturale”, bensì di un conflitto a fuoco fra un reparto dell’esercito regolare italiano ed un gruppo di terroristi jugo-slavi annidati all’interno dell’edificio, che avevano scagliato bombe a mano ed esploso colpi contro i militari. E’ da rimarcare come l’incendio del “Narodni Dom”, giudicato quale l’apice delle “violenze fasciste”, sia stato in realtà l’esito di uno scontro fra militari italiani, aggrediti, e terroristi jugo-slavi, aggressori.

Violenze fasciste certamente vi furono in Venezia Giulia, come in tutto il resto d’Italia, però posteriori alla violenze anti-italiane in Dalmazia ed in Venezia Giulia nel 1918-1920, per non parlare di quelle del periodo asburgico, cosicché viene a cadere la teoria cara alla sinistra comunista secondo cui le foibe e l’esodo sarebbero state una reazione alle “violenze fasciste” stesse. La verità è quella opposta: gli atti di violenza del fascismo in Venezia Giulia (neppure lontanamente paragonabili comunque all’operato dei titini) furono in risposta alle violenze terroristiche organizzate e dirette dallo stato jugoslavo. Inoltre, non si giunse mai alla costituzione di reparti para-militari, organizzati, armati ed addestrati dall’esercito, diretti ad essere impiegati sul territorio nazionale jugoslavo per compiere atti di terrorismo, quel che invece fece la Jugoslavia. Lo stato jugoslavo fu quello che, con una terminologia contemporanea, sarebbe definito uno “stato canaglia”, uno “stato terrorista”. Appartiene quindi alla Jugoslavia la responsabilità di certe violenze, (analoghe d’altronde a quelle che al principio degli anni ’20 interessarono il resto dell’Italia e buona parte dell’Europa), poiché fu la costituzione e l’attività di organizzazioni segrete e gruppi terroristici ad opera di Belgrado e dediti a sobillare gli Slavi della Venezia Giulia a mettere fuoco ad un panorama etnico sino a quel momento sostanzialmente tranquillo.
Si noti comunque che, a prescindere da tali scontri, comunque di ben modesta entità e che coinvolsero un numero ridotto di membri delle diverse comunità etniche, i rapporti fra Italiani e Slavi in Venezia Giulia continuarono ad essere sostanzialmente pacifici e cordiale anche durante il periodo fascista.
Gli stessi fascisti non erano di solito oggetto di odio dagli Sloveni o dai Croati ivi residenti, quanto di una certa indifferenza, né si deve trascurare il fenomeno, minoritario ma di non piccole dimensioni, del cosiddetto “fascismo slavo”, ovvero di Slavi giulio-veneti che avevano aderito convintamente al movimento fascista stesso.
L’INESISTENTE “PULIZIA ETNICA” FASCISTA IN VENEZIA GIULIA
I dati quantitativi dei censimenti della popolazione della Venezia Giulia, nei periodi che vanno dal 1880 al 1910 e dal 1910 al 1921, attestano come non sia avvenuta nessuna “pulizia etnica” fascista.
Per l’intera durata del primo periodo, la regione in questione fu sottoposta all'amministrazione austroungarica, mentre al termine del secondo ad essa si era sostituita, da soli tre anni, l'amministrazione italiana.
E’ ben noto come il governo asburgico perseguisse il progetto di “germanizzare e slavizzare” la Venezia Giulia, come anche la Dalmazia e l’Alto Adige, secondo le precise direttive di Francesco Giuseppe nel suo consiglio della Corona del 1866, e ciò trova conferma nei dati demografici del periodo 1866-1918, che vedono da una parte espulsioni massicce di Italiani, dall’altra un’immigrazione slava favorita in ogni modo, il tutto accompagnato da una politica persecutoria contro gli Italiani stessi, da violenze, dal mutamento coatto di un gran numero di cognomi ecc.
Può essere importante quindi vedere se il confronto tra i dati statistici dei censimenti austriaci ed italiani attesti un’operazione analoga da parte del nuovo governo, attraverso una differenza tra la popolazione slovena censita nel 1910 e quella censita nel 1921. Le rilevazioni affermano come la popolazione slovena della Venezia Giulia, che nel 1910 era composta da 326.794 unità, nel 1921 fosse passata a 258.927,con una diminuzione di 67.867 unità pari al 26,6% del totale originario del 1910.
Tuttavia, si deve tener conto del fatto che, tra le due date di confronto, ci fu la Prima Guerra Mondiale con i suoi 8,5 milioni di soldati caduti, tra i quali ben 1,2 milioni dell'Esercito Austro-ungarico, a cui si aggiunsero, nel 1919, gli effetti della cosiddette "febbre spagnola". L’epidemia di “spagnola” inflisse alla sola Italia un numero di vittime superiore a quelle dell’intero conflitto mondiale, e condusse a scene che ricordavano la Milano appestata del Manzoni, con ronde di monatti incaricati di caricare i morti. Si giunse a proibire il suono a lutto delle campane, per evitare di dare alla popolazione un’idea delle dimensioni della mortalità. Questa pestilenza fece strage non solo in Italia, ma in Europa e nel mondo. La gravità di questi due eventi per quanto concerne la Venezia Giulia è innegabile, se si tiene conto di come essa fu zona di guerra per quasi l’intero conflitto e che aveva patito in modo particolare delle conseguenze della spagnola, causa la debilitazione della popolazione. Lo stesso numero assoluto di Italiani ivi residenti, prescindendo quindi da quelli immigrati, era diminuito rispetto a quello del 1910.
Inoltre, è vero che avvennero degli spostamenti di popolazione nel periodo del 1918-1921 in Venezia Giulia, però essi furono volontari, e dovuti a ragioni economiche.
1] Il governo austriaco aveva immesso nella regione, nel suo progetto di “germanizzare e slavizzare […] con energia e senza riguardo alcuno” (verbale del consiglio della Corona austriaca del 1866), funzionari, amministratori, militari di etnia austriaca, ungherese, nonché slovena. Anzi, persino gli impiegati delle poste, del telegrafo, delle ferrovie ecc. erano scelti preferibilmente fra gli Sloveni, sia in rispondenza del progetto suddetto, sia perché tali funzioni erano ritenute di importanza militare. Al momento del passaggio di consegne dallo stato austro-ungarico a quello italiano tutte queste persone, ovviamente, persero il loro posto di lavoro: nessun stato al mondo avrebbe conservato funzionari, militari, impiegati statali di un altro stato, per di più stranieri, e nemmeno originari della Venezia Giulia, in quanto immigrati temporanei, sia per motivi di fedeltà (come era possibile mantenere militari, funzionari ed amministratori stranieri?), sia perché l’ammissione a determinati impieghi è soggetta a precisi requisiti ed a conoscenze diverse da paese a paese.
Come accade sempre ogni qualvolta un territorio passi da uno stato ad un altro, queste persone persero naturalmente i loro posti di lavoro, per cui in maggioranza decisero volontariamente di tornare nelle proprie terre d’origine. Chi però volle restare (qual è il caso di alcune famiglie della piccolissima nobiltà tedesca di Gorizia) lo potè fare. Si trattò di una semplice, abituale ed inevitabile misura amministrativa, comune a tutti gli stati (la Jugoslavia, ad esempio, fece lo stesso sul suo territorio), e non di una “pulizia etnica”, anche perché chi volle fu lasciato libero di rimanere in Venezia Giulia. (Sono molto utili al riguardo le considerazioni di H. Angermeier, “Königtum und Staat im deutschen Reich”, München 1954). Banalmente, come l’Austria si era servita di suoi funzionari, amministratori, impiegati statali, militari in Venezia Giulia, così fece l’Italia.
2] L’unica vera emigrazione per motivi politici, e non economici, dalla Venezia Giulia alla Jugoslavia fu invece quella di poche migliaia (meno di 3000) di nazionalisti Slavi, i quali, anche qui di loro spontanea volontà, si trasferirono subito dopo la guerra nel neonato regno jugoslavo, divenendo al di là della frontiera degli agitatori, propagandisti e terroristi del proprio nazionalismo in territorio italiano. Anche in questo caso non si deve parlare di “pulizia etnica”, perché questo spostamento fu volontario, e coinvolse oltretutto un numero di poche migliaia di persone (J. A. Brundage, “The genesis of the wars: Mussolini and Pavelic”, London 1987)
3] Ancora, bisogna segnalare come anche durante il Ventennio fascista si sia avuta un’immigrazione di Sloveni dalla Slovenia alla Venezia Giulia: il J. L. Gardelles, studioso francese, calcola che almeno 20.000-25.000 Sloveni immigrarono in Venezia Giulia ed ivi presero stanzialmente residenza durante gli anni ’20 e ’30. (“Histria et Dalmatia. Peuplements: essai de synthèse”, “Journal of modern history”, VI (1980), pp. 143-214). Un simile fenomeno, accettato dal regime fascista, è incompatibile con l’idea di un progetto di “pulizia etnica”. Infatti, il censimento italiano del 1936 documentava come, pur rimanendo una netta maggioranza italiana, la percentuale di popolazione slava nella regione era cresciuta rispetto al censimento del 1921.
I diagrammi ed i dati dei censimenti dimostrano chiaramente ed inequivocabilmente la rappresentazione di come non ci sia stato alcun esodo da parte degli sloveni alla fine della Prima Guerra Mondiale. Rispetto al censimento del 1910, la percentuale di Slavi sul totale della popolazione della Venezia giulia si ridusse di 6,5 punti percentuali, per le cause sopra suddette.
Tuttavia, rispetto al censimento del 1921, la popolazione di Slavi in Venezia Giulia era cresciuta di oltre 4 punti percentuali, per lo più in seguito ad un movemento migratorio dalla Slovenia all’Italia, il che dimostra l'inesistenza di una cacciata di massa degli Slavi, essendo anzi in crescita rispetto alla popolazione italiana.
Si deve invece rilevare l’ampiezza della brutale pulizia etnica esercitata dagli sloveni sulla popolazione italiana in lstria, dove la percentuale degli abitanti italiani sul totale della popolazione si ridusse di 80 punti percentuali.

P.S. In quanto all’accusa di aver italianizzato i cognomi, questo è solo parzialmente vero. In realtà, nel periodo 1866-1918 era stato il regime asburgico a slavizzare i cognomi italiani, con l’appoggio del clero slavo. Le norme italiane erano teoricamente rivolte a ripristinare la forma originaria e corretta dei cognomi italiani così slavizzati.
Inoltre, si ebbero altri cambiamenti del cognomen da slavo ad italiano, in alcuni casi imposti, in altri volontari e su richiesta degli interessati. L’Apollonio ricorda come la maggioranza di coloro che ebbero tale mutamento nella grafia del cognome nel secondo dopo-guerra, pur potendo ripristinare la forma slava, scelsero di mantenere quella italiana. Al contrario, i cambiamenti introdotti con l’imposizione dal governo asburgico nell’onomastica non incontrarono adesione alcuna.
E’ pertanto possibile dire che in alcuni casi avvennero sì italianizzazioni di cognomi slavi contro la volontà dei titolari, ma che furono casi complessivamente limitati, in quanto di norma si trattò di ripristino dell’originaria forma italiana del cognome stesso (slavizzato dall’amministrazione austriaca) oppure di un mutamento volontario.

venerdì 14 agosto 2009

Il saluto romano

Il celeberrimo “saluto romano”, compiuto alzando il braccio destro teso o leggermente piegato, e mostrando la palma, diffusosi prima nell’Italia fascista, poi, con alcune varianti, in molti altri paesi autoritati dell’epoca, come la Germania, la Spagna, la Grecia, ed ancora oggi adoperato negli ambienti di destra, ha un’origine controversa.
La sua adozione da parte del fascismo avvenne per imitazione del saluto militare compiuto dai legionari fiumani del D’Annunzio. Il Vate, uomo di notevole cultura ed amante della classicità, presentava tale gesto quale, appunto, la forma di saluto degli antichi Romani. Non è però affatto chiaro da quali testi il poeta abruzzese avesse tratto tale idea.
In verità, gli storici non concordano sull’esistenza in epoca romana di una tale forma di saluto, perlomeno codificato dalle norme militari per i legionari o dai mores per i semplici Quiriti. Esistono fonti sia letterarie, sia iconografiche, che documentano l’esistenza di determinate forme di saluto, tuttavia bisogna interpretarle correttamente e collocarle negli specifici contesti sociali d’uso.
L’esistenza di un “saluto militare” formalizzato appare altamente probabile sulla base di alcuni passi, come di uno del De bello africo dello Pseudo-Cesare, in cui si accenna ad una salutatio more militari. Però, brani dal contenuto analogo si rintracciano, ad esempio, nel De bello civili, nella Vitae Cesarum di Svetonio, in Flavio Giuseppe ed altri autori ancora, quale Publilio Siro.
Secondo molti storici il saluto romano "classico", quello ripreso dal Fascismo, esisteva sicuramente nel periodo delle Guerre Puniche, ed era praticato, (Carocci, Storia completa della Romanità nel regime fascista, Garzanti, 1999), con il braccio destro teso all'altezza del volto. Un altro studioso, il Rome ha proposto una variante molto interessante, testimoniata da alcuni autori minori, Publilio Siro, nella Roma di Cesare. La leggenda la vuole introdotta da Mario. Avveniva così, come avete visto: il pugno destro sul cuore, e poi il braccio allungato, sempre all'altezza del volto.
Esistono numerose attestazioni di una simile forma di saluto. la famosa statua dell'Arringatore del Trasimeno la celeberrima statua dell'Augusto di Prima Porta; l’altrettanto celebre stata equestre di Marco Aurelio in Campidoglio. Alcuni storici anglosassoni ritengono che il monumento equestre di Marco Aurelio, in origine posizionato dove ora sorge la Basilica lateranense e quindi di fronte alla caserma degli equites singulares, stesse a significare il sovrano che rispondeva al saluto militare che il reparto gli stava facendo La Colonna Traiana raffigura invece una salutatio imperatoria da parte delle legioni, nella quale i milites salutano tutti insieme il principe alzando il braccio destro non esteso completamente. Una gesto praticamente identico compare in un rilievo funerario di Efeso del II secolo d.C., in cui il defunto, un militare, saluta il proprio superiore con braccio proteso in avanti ed un poco piegato, palma rivolta verso il comandante, tutte le dita unite tranne il pollice allargato. Inoltre, anche alcune raffigurazioni su monete rappresentano la stessa scena. Ancora, Giuseppe Flavio nel suo De bello iudaico segnala come i legionari, acclamando il loro comandante, alzassero tre volte il braccio destro.
Altri storici hanno però fanno notare come esista una discrepanza tra i gesti raffigurati nelle opere figurative suddette, in quanto nelle tre statue sopra ricordate, a differenza della Colonna Traianea e di alcune monete, il gesto ritratto non veda la mano interamente distesa, ma soltanto l’indice, sollevato verso l’alto, mentre le altre dita sono di solito leggermente piegate verso il basso. Questo, assieme ad altri fattori, ha indotto alcuni studiosi a ritenere che questo gesto sia quello dell’adlocutio, con cui un oratore si rivolge al suo pubblico iniziando il discorso, e non un vero e proprio saluto militare.
Altri ancora hanno proposto altre forme alternative di saluto militare, rispettivamente l’alzare la mano sull’alto verso l’elmo, in maniera analoga al saluto militare contemporaneo (documentato da due rilievi, fra cui celebre quello di Domizio Enobarbo) ed il portare la mano destra a pugno chiuso sul cuore.
Inoltre, non mancano storici che dubitano dell’esistenza di un autentico saluto militare codificato in epoca romana, ed interpretano i vari gesti sopra segnalati, tranne l’adlocutio che però era propria dell’orator, quali espressioni informali, analoghe al cenno di saluto che ancora oggi in Occidente, ed altrove, si compie verso un amico alzando un braccio.
Un discorso a parte deve essere fatto per il cosiddetto “saluto gladiatorio”, compiuto stringendosi gli avambracci, che è ritenuto essere l’equivalente della stretta di mano oggi diffusa, e che era il saluto informale e cameratesco dei legionari, (oppure dei gladiatori?), e dei semplici vires.
A modestissimo parere del sottoscritto, la frequenza con cui l’iconografia segnala il salus iuvare con il braccio destro alzato e la palma rivolta innanzi a sé, in concordanza con le testimonianze di testi letterari su una specifica salutatio fra legionari, induce a ritenere che un gesto molto simile all’attuale “saluto romano” esistesse effettivamente, perlomeno in ambito militare. La continuità di tali attestazioni nel corso dei secoli ed in periodi differenti, dalla repubblica all’impero, costituisce un’ulteriore convalida di tale ipotesi.Prove certe e definitive della veridicità di tale teoria non esistono, tuttavia tale ipotesi appare quale la lectio probabilior fra le diverse contrastanti.